Welcome to Greece
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Il tempo sospeso di chi scappa
[english version below]
(di Elio Germani/S4C Brussels)
Grecia, regione di Kilkis, primi giorni di marzo. A pochi metri dall’autostrada che porta in Macedonia, una stazione di servizio in disuso della Kaoil è ormai da qualche tempo diventata un accampamento sulla rotta verso Idomeni. “Welcome to Greece” recita una grande insegna con un omino in abiti tradizionali greci. Qualche decina di tende montate sotto le tettoie disponibili sostituiscono le automobili. Da quest’area di servizio le famiglie cariche di coperte, sacchi a pelo e fagotti imboccano la scorciatoia che porta a Idomeni, ad appena qualche chilometro di distanza.
Mi incammino insieme ad un gruppo che si dirige ancora speranzoso verso il confine macedone; il sentiero corre lungo i campi coltivati, il paesaggio è dolce e primaverile. In lontananza, da una parte le cime innevate delle montagne e dall’altra Gevgelja, cittadina macedone.
Appena attraversato il ponte sul Vardar una famiglia di Aleppo si ferma per una breve sosta. Un ragazzo tira fuori dalla giacca un tubetto di plastica e, in un attimo, decine di bolle di sapone volteggiano nell’aria. Non si direbbe che a meno di due chilometri si trovino migliaia di persone accampate a ridosso del confine, in condizioni, a dir poco, precarie.
Il tempo di vedere le bolle disperdersi e riprendiamo il cammino verso il confine. Per terra, nel fango che si sta lentamente asciugando sotto il sole mattutino, qualcosa richiama la mia attenzione: un orologio da polso di plastica con un grosso buco al centro al posto del meccanismo. Un simbolo casuale del tempo sospeso di chi scappa dalle persecuzioni senza trovare accoglienza.
In pochi minuti arriviamo ad un boschetto accanto alla ferrovia, vicino alla stazione di Idomeni, dove uomini di tutte le età si procurano la legna.
La presenza del campo si percepisce ancor prima di poterlo scorgere. Il fumo aspro dei fuochi accesi durante la notte arriva lontano: non è solo legna quella che brucia ma tutto ciò che può ardere, plastica e rifiuti compresi.
La ferrovia collega Salonicco a Skopje e taglia in due il campo, una distesa di tende da campeggio e tendoni bianchi delle ong. Le tende occupano un’area che va dalla stazione alla doppia barriera di rete metallica e filo spinato che corre lungo il confine. La prima è stata innalzata a novembre 2015 e a febbraio 2016 le autorità macedoni ne hanno costruita una seconda a 5 metri dalla precedente. Tra le due recinzioni una strada sterrata permette ai mezzi dell’esercito e della polizia di frontiera di percorrere e controllare il confine.
Nei pressi dell’unico accesso, che si apriva per massimo 200 persone al giorno, una folla in attesa.
[GALLERIA FOTOGRAFICA]
Proprio vicino al varco d’accesso alla Macedonia conosco Ali, 23 anni, della provincia di Diyala, a nord-est di Baghdad, vicino all’Iran. Un amico che sta per entrare in Macedonia, dopo una notte passata all’aperto per non perdere il posto, gli chiede di portargli qualcosa da mangiare per la sua famiglia. Mentre andiamo a comperare dei biscotti Ali mi racconta che vorrebbe andare in Germania, non tanto per il lavoro ma semplicemente perchè è l’unico paese che ancora sembra disponibile ad accogliere chi fugge dalla guerra in Siria e Iraq. Un posto sicuro dove stare, lontano dalla guerra e dal filo spinato.
Il suo viaggio è cominciato il 9 febbraio, quando è partito per la Turchia con un aereo; si è poi imbarcato su un gommone che l’ha portato dalle coste turche alle isole greche. Da lì è sbarcato ad Atene ed ha preso un autobus fino a Salonicco; l’ultimo tratto l’ha fatto in taxi con i suoi compagni di viaggio. I suoi genitori sono rimasti in Iraq: suo padre, malato, non avrebbe potuto sopportare un viaggio duro come quello che sta facendo lui.
Mi mostra con molta nostalgia le foto della sua famiglia mentre parla della sua città, resa invivibile dagli scontri incessanti tra milizie sciite e sunnite. Tre, quattro bombe al mese scoppiavano a Diyala al momento della sua partenza, il coprifuoco era costante, tutti i negozi erano chiusi e per strada non c'era nessuno. Qualche giorno prima del nostro incontro ha perso i suoi migliori amici in un attentato suicida. Rimprovera al governo iracheno di separare i suoi cittadini: sunniti e sciiti prima stavano assieme, i matrimoni misti non erano una rarità. Oggi anche i bambini usano le armi e i sequestri non si contano più. Si trova qui senza sapere se potrà continuare il suo viaggio.
Dal confine oggi non passa più nessuno, i cancelli sono chiusi e i container che ospitavano il centro di registrazione si sono svuotati. Non ci sono più le interminabili file per ottenere un numero d’attesa.
Le condizioni di vita a Idomeni sono simili a quelle che ho trovato in altri campi improvvisati nelle zone di confine da quando ho cominciato il reportage lungo la rotta balcanica. La differenza però sta nei numeri: si stima che il campo ospiti circa 15.000 persone di cui un terzo sono bambini. Il numero non è preciso perchè il movimento è continuo e il campo non è delimitato. Le tende sono piantate ovunque, sui binari, sulle pensiline della stazione, sulla ghiaia dei parcheggi ma soprattutto sulla terra dei campi, che ad ogni pioggia diventano laghi di fango.
Il vero emblema delle giornate qui è l’attesa: si aspetta, ormai invano, che il cancello si apra. Si sta in fila per il cibo, per i bagni, per i documenti, per le visite mediche.
Da quando la Macedonia ha chiuso definitivamente la frontiera, la situazione è diventata disperata, e i recenti accordi stretti con la Turchia non lasciano intravedere niente di positivo.
Elio Germani/S4C Brussels
The suspended Time of those who escape
(by Elio Germani/S4C Brussels)
Kilkis region, Greece, early March. A few meters from the motorway leading to Macedonia, a disused Kaoil petrol station has become since a while a camp on the way to Idomeni. A large sign with a man figure wearing traditional Greek clothing reads "Welcome to Greece". Cars have been replaced by a few dozen tents set under the gas station canopies available. Families carrying blankets, sleeping bags and bundles start off from this petrol station on the short cut leading to Idomeni, just a few kilometers away.
I set off with a group that heads full of hope towards the Macedonian border. The trail runs along the fields, the landscape is gentle and recalls the near beginning of the spring. Further away, the snowy peaks of the mountains on one side, on the other the Macedonian city of Gevgelja.
After crossing the bridge over the Vardar a family from Aleppo stops for a short break. A guy pulls out from his jacket a plastic tube, and, suddenly, dozens of soap bubbles hover in the air. It is difficult to believe that less than two kilometers away thousands of people are stranded on the border in so precarious conditions.
As soon as the bubbles disperse in the air we continue on our way towards the border. On the ground, amidst the mud that is slowly drying under the morning sun, something attracts my attention: a wrist plastic watch with a big hole in the middle where the mechanism used to be. An accidental symbol of the suspended time of those who flee from persecution without finding anyone to welcome them.
In a few minutes we reach a small wood next to the railway, close to Idomeni station, where men of all ages are looking for firewood.
One can notice the presence of the camp long before it can be seen. The smoke of fires lit during the night reaches out far away: it is not only the firewood that is burning, but anything that can burn, including plastic and waste.
The railway connects Thessaloniki to Skopje and cuts in two the camp area, a stretch of camping tents and big white tents used by NGOs. The tents occupy an area that goes from the railway station to the double barbed wire fence running along the border. The first one was built in November 2015; in February 2016 the Macedonian authorities built a second fence at a 5 meter distance from the first. A gravel road in between the two fences allows army vehicles and police guards to patrol the border.
At the only border crossing point, which opened for around 200 people per day, a crowd is waiting.
Just close to the acces gate which allows entry to Macedonia I meet Ali, 23, from Diyala province, northeast of Baghdad, close to Iran. A friend who is about to enter Macedonia after a night spent outdoors not to lose his turn, asks him to fetch some food for his family. As we go buy some cookies, Ali tells me he would like to go to Germany, simply because it is the only country that still seems willing to receive those fleeing conflict in Syria and Iraq. A safe place to stay, away from war and barbed wire.
His journey began on February 9, when he left for Turkey by plane. He then boarded a rubber boat that took him from the Turkish coast to the Greek islands. After reaching Athens he took a bus to Thessaloniki; a taxi brought him and his traveling companions to the camp. His parents remained in Iraq: being sick, his father could not bear the hard journey Ali is doing.
Nostalgically, he shows me some pictures of his family and talks about his city, where life had been rendered unbearable by continuous clashes between Shiite and Sunni militias. Three, four bombs per month used to burst in Diyala when he left, the curfew was constant, all shops were closed and streets were empty. A few days before our meeting he had lost his best friends in a suicide bombing. He blames the Iraqi government for dividing its citizens: Sunnis and Shiites used to live peacefully together before, mixed marriages were not uncommon. Now even children carry firearms and kidnappings are so frequent they do not surprise anyone anymore. Ali is here without knowing if he will able to continue his journey.
Today nobody can cross the border anymore, gates are closed and the containers that used to house the registration center are empty. No more queues to get a waiting number.
Living conditions in Idomeni are similar to those I already witnessed in other border camps since I started the story about the Balkan route. Yet the difference is in the numbers: it is estimated that around 15,000 people are staying in the camp of which one third are children. Numbers are not accurate because the flow is constant and the camp has no delimitation. Tents are set everywhere, on the rails, on the platforms, on the gravel but especially in the fields, which at every rain turn into lakes of mud.
The real emblem of days spent here is waiting: people wait, now in vain, that the gate opens. They stay in line for food, for toilets, for papers, for medical checks.
Since Macedonia has decided to indefinitely close the border, the situation became desperate. The recent deal with Turkey does not hint to anything positive.
Elio Germani/S4C Brussels
PHOTO GALLERY
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Complimenti per le foto e per il servizio!
Una tragedia immane, che tu giustamente continui a testimoniare, ma che – chi dovrebbe farlo, non vuole risolvere, se non con questi cosiddetti accordi (tipo il più recente, con la Turchia), che aggiungono problemi a problemi, ributtando indietro persone. Come se tali non fossero, ma solo numeri!!
Finirà mai?
Un abbraccio a te e Linda.
PS: che significato ha l’operazione 18 – 4 ???
No ghe rivo!!!
Sandra