Un giorno a Shavshvebi
Siamo partiti un mese fa con in mano due biglietti aerei per Tbilisi, in Georgia.
Guillermo Luna è un fotoreporter con tanta luce negli occhi, io ho qualche annetto in meno e ho iniziato ad andare alla scoperta del mondo.
Da dieci anni Guillermo Luna segue il lavoro che i Camilliani compiono nelle zone più periferiche del mondo: Africa, Brasile, Georgia, India.
Ha raccontato in tutti questi anni la trasformazione di un paese come la Georgia, gli effetti di una guerra, la bellezza delle persone che aiutano altre persone.
A Tbilisi i Camilliani Georgiani compiono una attività di aiuto concreto: gestiscono il “Poliambulatorio Redemptoris Hominis” nella periferia impolverata della città, che offre un sistema di assistenza gratuita e visite domiciliari destinato alle fasce più deboli e agli sfollati della recente guerra del 2008. Hanno la loro base operativa al “Centro per disabili S. Camillo di Tbilisi”, dove ragazzi con handicap di diversa natura scoprono che la vita li aspetta, anche quando sembrerebbe di no.
Hanno portato “La Casa della nonna” in un villaggio di sfollati di guerra ai piedi del piccolo Caucaso, un luogo in cui i bambini hanno bisogno di ricordare ogni giorno di essere bambini.
Questa volta ho percorso anche io quelle strade dove a volte le buche ti fanno sentire su una giostra.
Insieme abbiamo seguito le storie di anziane donne così piccole da essere inghiottite dai piumoni dei loro letti, di infermieri che profumano con acqua di colonia stanze che odorano di solitudine, di ballerini in sedie a rotelle, di bambine che sognano di diventare giornaliste.
Ornella
—————
Un giorno a Shavshvebi
testo: Ornella Mazzola/S4C
foto: Guillermo Luna/S4C
Ore 7 del mattino, il gallo ha già cantato.
La lunga strada sterrata dorme ancora, le case tutte uguali per forma e misura sono sempre lì, una accanto all’altra.
La vita si sveglia: la donna con il maglione rosso esce dalla porta di casa e, davanti alla sua piccola veranda, resta immobile, in penombra.
Ogni volta che sorge il sole, gli abitanti di Shavshvebi guardano dalle loro piccole verande la montagna di fronte.
A valle si distingue nitidamente ciò che hanno lasciato per sempre: i loro villaggi.
Shavshvebi è un campo per sfollati.
Nel 2009-2010 la guerra russo-georgiana ha creato uno strappo nelle vite di queste persone: in massa hanno dovuto lasciare la loro terra, le case, le radici e l’intera esistenza, ricominciando una vita da capo, in un luogo fatto di tetti rossi e vie senza nome, tra l’autostrada e la campagna sterminata.
I vecchi villaggi fantasma guardano i loro abitanti perduti, dai piedi del piccolo Caucaso.
Gli abitanti perduti, invece, hanno dovuto ricominciare a vivere, con una ferita sempre aperta e lo sguardo rivolto verso quell’orizzonte.
Intorno a mezzogiorno il silenzio diventa invadente e Shavshvebi sembra disabitata.
Si intravedono da lontano le sagome delle donne energiche che coltivano la terra, ogni tanto qualche trattore avanza a passo di formica e poi sparisce dal raggio visivo.
Qui si può sopravvivere solo con ciò che si produce e si è troppo distanti da tutto.
L’esistenza dipende dalle piogge, dal caldo, dal vento e da quanto la terra decide di essere gentile.
A Shavshvebi quasi nessuno possiede qualche fotografia-ricordo della propria vita antecedente alla guerra, tutto ciò che è rimasto della vecchia esistenza può essere anche solo un plaid di lana sbiadito.
Alle due, sulla strada principale, si alza la polvere gialla.
Tamuna, Tamta, Mari, Nino, Katy, Dato e gli altri bambini di Shavshvebi corrono nel bel mezzo di tutto questo nulla.
Loro sono la vita che avanza: prepotente, selvaggia, incontenibile.
Si conoscono tutti tra loro, stanno condividendo questo modo così strano di essere bambini, in un non-luogo imperfetto, dove il parco giochi sembra essere capitato lì, per caso, e i bagni sono delle piccole casette di legno fuori dalle abitazioni, con la pioggia o con la luna.
I bambini di Shavshvebi hanno trovato una ragione di vita, la stessa che li spinge a correre, alle due, quando la scuola viola in mezzo al verde chiude le sue porte.
“La casa della nonna” è quella ragione.
I Camilliani del Centro per disabili di Tbilisi hanno creato anni fa questo punto di riferimento per i bambini di Shavshvebi, molti dei quali ancora con la sindrome di stress post trauma, hanno dato loro una casa, Giorgi Mas (il maestro Giorgi in lingua georgiana), la musica, la danza, le marionette, la pienezza.
La “Casa della nonna” li ha riempiti di ciò che non avevano.
Questi bambini, in effetti, non avevano più niente.
Alle quattro Giorgi “Mas”, maestro e coordinatore della casa, crea un cerchio con i ragazzi al centro di una delle stanze, insegna loro le capitali degli Stati del mondo. Tutti lo stanno ad ascoltare, indovinano le città, diventa ogni volta un gioco.
Giorgi Mas sa che ogni risposta esatta, a Shavshvebi, non è solo una risposta esatta.
Questa volta vince Nino.
Nino è diventata alta, dentro la Casa della nonna ci sono le sue fotografie, insieme a quelle degli altri bambini che, qui dentro, hanno visto le loro dimensioni crescere nel tempo. Da piccola il suo sguardo era già interrogativo, con quel retrogusto di sorriso sospeso. La sua è una forza aggraziata. Nino è il nome giusto per lei.
Lei è un elemento del gruppo storico, quello che non ha pensato neanche per un momento di abbandonare la Casa della Nonna, il gruppo che ha sperimentato, dall’inizio ad oggi, cosa significhi trovarsi in mezzo al niente, senza alcuna colpa, e ricevere tutto, senza averlo mai chiesto.
Forse è per questo che le ragazze come Nino, Tamta, Tamuna, riescono a sorridere senza sforzo, sono ancora al confine tra l’essere donne o bambine, ma sono già sopravvissute alla vita.
Non possono fare altro che sorridere.
Nella seconda stanza, si balla.
Le due Mari, la grande e la piccola, le ballerine del gruppo da sempre in prima fila, sono cresciute insieme, imparando i passi della danza georgiana, insegnandoseli a vicenda, sbagliando e correggendosi, a furia di quei tanti “ara!” (“no!” in georgiano) e dei conteggi infiniti.
Loro sono ancora qui, a Casa della nonna, ognuna un pò più grande nella rispettiva altezza.
Mari grande e Mari piccola.
Quando è il momento di ballare ormai non commettono più errori.
Perdono la gravità, il peso, ed emerge quello sguardo da bambine già cresciute.
Diventano aria.
La casa si riempie.
Le altre del gruppo le seguono, tutte insieme sono lo spettacolo.
Vederle ballare è lo spettacolo della vita che resiste.
Quando il sole comincia a scendere giù, dalla Casa della nonna escono fuori tutti questi bambini: non si capisce bene come riescano a starci tutti, in quelle due stanze, fatto sta che lo spazio diventa infinito.
Ognuno recupera le proprie scarpe lasciate sull’uscio.
Gli insegnanti li guardano andare via, Giorgi mas è fermo davanti la porta, anche oggi questi bambini hanno vissuto come veri bambini.
Mentre vanno via in controluce nasce un pensiero.
Chissà se una ragazza come Nino riuscirà ad andare via da Shavshvebi, un giorno.
Quando le si chiede come si immagina il suo futuro, lei risponde con i suoi occhi da guerriera che vorrebbe andare a studiare all’Università di Tbilisi, per poi diventare una brava giornalista. Da grande vivrebbe a Rio de Janero, perchè le piace il carnevale.
Si riesce quasi ad immaginare quello stesso sguardo determinato tra vent’anni, quando Nino magari sarà diventata una giornalista in giro per il mondo, che porta sempre dentro la valigia il ricordo della sua infanzia così felice, in un posto tanto difficile.
Nino penserebbe sempre alla “Casa della nonna” con una gratitudine che nessuna parola potrebbe mai esprimere.
Nino e le ragazze come lei dovrebbero avere la possibilità di inseguire quello che i loro occhi sognano.
A mezzanotte Shavshvebi è un paesaggio lunare.
E’ in attesa di un nuovo giorno, quando il sole sorgerà di nuovo e gli abitanti di Shavshvebi guarderanno dalle loro piccole verande la sagoma dei loro vecchi villaggi ai piedi del piccolo Caucaso.
Giovedi 17 Aprile Tamta, Nino, Katy, Mari piccola e altre ragazze di Shavshvebi hanno piantato dei semi in un quadrato di terra al “Centro per disabili S. Camillo”, dove l’avventura della “Casa della nonna” ha avuto inizio.
Sono arrivate a Tbilisi con le loro piccole macchine fotografiche, per congelare una giornata così insolita.
Hanno cantato sedute una sull’altra su una giostra del parco giochi del Centro.
Le loro voci hanno ipnotizzato tutto il quartiere Temka, che alle due era silenzioso come non mai.
Presto le piante cresceranno, così come queste giovani fenici.
There are no comments
Add yours