Tony Vaccaro a Roma: l'orrore della guerra ed il barlume di speranza
Ieri ho avuto il grande privilegio di conoscere e scambiare quattro chiacchere con il grande fotografo Tony Vaccaro, a Roma per l’inaugurazione della mostra “Scatti di Guerra” alle Scuderie del Quirinale. Una rassegna di scatti storici suoi e di Lee Miller dallo sbarco in Normandia fino alla liberazione di Berlino.
Personaggio incredibile. Umano e disponibile come solo chi ha vissuto veramente sa e può essere. Un vero testimone del XX secolo.
Non riporto la sua lunghissima biografia (che comunque vi invito a leggere). Mi limito a due considerazioni.
Nel 1944 partecipò, soldato E fotoreporter, allo sbarco in Normandia. Italoamericano (di origini molisane, ancora oggi parla un buon italiano), ripiombò nella sua Italia, nella quale tornò più volte per testimoniare la ricostruzione dopo la Guerra. La fotografò con gli occhi di chi riesce a scorgere negli occhi degli uomini quel barlume tenace di bontà, necessario per continuare a sperare in una realtà alternativa.
L’orrore, il male vero e assoluto, Tony Vaccaro l’ha visto davvero negli occhi. La distruzione l’ha vissuta. Ma, a dispetto di questo drammatico scenario, ciò che con più forza emerge dai suoi scatti è un senso tangibile di speranza, serenità e rinascita, quasi che l’aver vissuto sulla propria pelle l’orrore della guerra lo spinga, appunto, a cercare nel “dopo” la speranza, consapevole della forza e dell’impatto delle sue fotografie.
Cito da un suo libro alcuni ricordi di guerra e di quello che, da giovane fotoreporter, ha dovuto fare – durante le operazioni militari – per sviluppare le sue foto e come mai alcuni suoi celebri scatti appaiono “rovinati” e graffiati:
“Durante la battaglia del villaggio di Sainteny, in Normandia, mi trovai nelle rovine di una casa senza tetto e vidi fra un mucchio di pietre e polvere un pacchetto con su scritto a mano ‘Hydroquinone’ (alla High School il maestro, Mr. Lewis, mi aveva insegnato la formula per preparare lo sviluppo Kodak D-76, che contiene, appunto, l’Hydroquinone). Guardai intorno, e fra i rumori dell’artiglieria e dei fucili, realizzai di trovarmi tra le rovine di un negozio di fotografia. Cercai e trovai altri pacchetti di sostanze che mi sarebbero servite sia per sviluppare le pellicole che per il fissaggio. L’unico contenitore per sviluppare i miei rullini era il mio elmetto. Ma ne servivano cinque: quello con lo sviluppo, il D-76, poi l’acqua, l’iposolfito, l’acqua per il primo lavaggio dell’iposolfito e, alla fine, un secondo lavaggio più lungo. Per questo avevo preso un elmetto da un cadavere che mi stava vicino. Senza termometro e senza bilancia ho sviluppato il primo rullo di notte, a cielo aperto, tenendo le estremità della pellicola con le due mani e facendola scorrere su e giù per 11 minuti, quanto era necessario per svilupparla. Al termine del lavaggio, appendevo la pellicola sui rami degli alberi e, la mattina dopo, il negativo era pronto“.
e inoltre:
“Le pellicole che sviluppavo le portavo sempre con me, nello zaino, ma man mano che aumentavano facevano sempre più volume. Così, quando arrivammo a Parigi, in un teatro distrutto dai bombardamenti trovai uno di quei reel che si usavano per avvolgere le pellicole cinematografiche; la larghezza era la stessa, 35mm. In questa grande bobina avvolsi allora tutte le mie pellicole, una dietro l’altra, man mano che le sviluppavo. Ma per farcele entrare tutte le dovevo tirare, così la polvere e l’umidità crearono delle irrimediabili micro-rigature. Nelle stampe si notano, ma io li ho considerati segni lasciati dalla guerra, come ferite indelebili“.
Leggendo questo aneddoto, guardando questa foto e ricordando l’espressione che ieri lui ha fatto quando gli ho detto che spesso scatto ancora con una vecchia F2 a pellicola, mi ha fatto capire quanto romanitica possa essere la vulnerabilità stessa della pellicola. Quei graffi suoi scatti sembrano delle ferite. Un negativo brutalmente ferito dalle circostanze ha senz’altro più forza di un asettico click digitale (dal quale, peraltro, non possiamo prescindere oggi).
Perdonate la deriva amarcord….
Ultimo aneddoto. Gustatevi questo video nel quale lo stesso Tony Vaccaro illustra una delle sue foto più famose:
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=pMdkpAgd6zE]
Ve lo riassumo in poche righe. La foto prende il nome, Tannebaum, del soldato ritratto morto e supino nella neve delle Ardenne in Belgio. Vaccaro simboleggia, con le sue parole, la “dignità della morte”. Salto la descrizione dell’episodio in se’ (e vi rimando al video) per soffermarmi sul…lieto fine (!).
A distanza di anni, Vaccaro ricevette una telefonata. Era il figlio di quel Tannebaum. Gli chiese di accompagnarlo in Belgio nel punto in cui il padre fu ucciso. Lo fecero.
Arrivati lì, al posto del gande campo di grano, c’era una bosco di piccoli abeti.
Cercarono e trovarono il proprietario del terreno, gli mostrarono la foto (che nel frattempo aveva vinto numerosi premi, tra cui quella di miglior foto del XX secolo secondo un famoso quotidiano tedesco) e gli chiesero come mai al posto del campo di grano vi fosse un bosco.
Il giovane proprietario li informò che non si trattava di un bosco vero e proprio. Vi crescevano abeti poi esportati in Spagna e Portogallo, a dicembre, come alberi di Natale. Un bel business…
Gli occhi di Vaccaro brillano al ricordo degli attimi di silenzio che intercorsero in quel momento…
Tannebaum significa, in tedesco…..albero di Natale.
Antonio
PS Tony Vaccaro, al quale ho parlato brevemente del progetto Shoot For Change, mi ha invitato giovedì prossimo all’inaugurazione di un’altra mostra con i suoi scatti del dopoguerra italiano. Spero di esserci per approfondire la conoscenza di questo straordinario personaggio.
Un uomo innamorato della fotografia… fantastico!
Sì, lo si vede nei suoi occhi. ha una passione profonda