Misery is Photogenic. Is it inspiring, too?

I strongly recommend you read photographer Enzo Dal Verme outstanding blog and, in particular, his latest post (click here) where he gives a lot of food for thoughts (as a consequence of a public debate lately held in Milan).

He writes about the aesthetic of the tragic, misery being an easy target of photojournalists and how the “offer of photography” is driven by market demands. A very interesting reading.

Since I’ve created Shoot4Change I could see that people react emotionally on a “strong” and tragic image rather than on a positive and potentially more inspiring one. Stats and weblogs showed that at the beginning (and somehow still do).

But over the time, pursuing S4C mission of reporting untold or ignored stories and the ones of those who try to bring a positive solution WITHIN tragic stories, I could see that our viewers attention was shifting. Stats showed a progressively longer reading time on those positive stories.

We have an average reading time of about 3 minutes and it’s quite a lot, since we are not a commercial magazine. It means people are interested and read carefully an article. To make a long story short, I think that the Adapt and Evolve approach works, and it really does, when it comes to adapting to market and technology changes. As for editorial content, I might be a little more optimistic.

If (and maybe S4C  is the proof, altough we are still very young) people (pros and amateurs alike) are willing  to go down on the streets to tell ignored or forgotten stories (often stories about the huge number of volunteers who bring relief in tragic situation) there is a growing demand – from the wider public – to know more about it.

But make no mistake. Tragedies are still, and will keep being, extremely aestethic and “remunerated” by mainstrem media. And it’s ok.

But, at least in my view, it is ok not only as long as it serves Information purposes but also if it’s intended to inspire others to take part in social change.

Antonio




There are 8 comments

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  1. Alessandro Zanini - S4C/Bologna

    Ho letto l’articolo di Dal Verme e mi dispiace non avere potuto partecipare all’incontro a Forma.
    Il tema dell’estetizzazione del tragico accompagna la fotografia sociale sin dal suo inizio. E non riguarda certo solo la fotografia.
    Il resoconto di Dal Verme sul dibattito a Forma richiama bene alcuni dei leitmotiv che puntualmente ritornano quando si affronta il tema.

    Mi piacerebbe che per analogia questo argomento ci guidasse a riflettere su un tema più generale.
    Le domande potrebbero essere: la fotografia sociale contribuisce alla costruzione e al mantenimento di rappresentazioni sociali stereotipate dei soggetti che racconta? Continuando a rappresentare determinati soggetti secondo determinati schemi, il fotografo rischia di farsi guidare e di riproporre una visione pregiudiziale che condivide con il suo pubblico, un’opinione che si autoconferma?
    A mio modesto parere, devo rispondere affermativamente.

    Non si tratta di negare l’esistenza delle emergenze umanitarie o più semplicemente del disagio sociale nella realtà più vicina a noi.
    Si tratta però di riflettere sull’importanza per chi opera nella fotografia sociale di saper cogliere (e rappresentare) la rapidità e l’essenza del cambiamento sociale in atto proprio qui intorno a noi. Cambiamento che ogni giorno mette in crisi l’idea che noi abbiamo di intere categorie di persone “svantaggiate”, che improvvisamente scopriamo muoversi e vivere in modo diverso da come noi pensavamo. Scopriamo che sono diversi da come ce li immaginiamo e da come li rappresentiamo con la fotografia.

    Questo tipo di attenzione al cambiamento, questa sensibilità, dovrebbe caratterizzare tutti gli attori che operano “nel sociale”, in primis chi i servizi sociali li programma e li gestisce.
    Essere capaci di vedere l’altro-da-sé riuscendo ad andare oltre l’inevitabile insieme di stereotipi che sempre ci accompagnano, credo sia un primo passo importante per costruire nuove rappresentazioni (anche fotografiche) che vadano oltre la facilità del tragico ad ogni costo.

    Chi opera in una sfera pubblica molto delicata come quella della fotografia credo debba essere molto consapevole della propria (piccola…) parte di responsabilità nel meccanismo vizioso che permette a pregiudizi e stereotipi collettivi di perpetuarsi. Così come del ruolo attivo che invece si può giocare nel loro superamento.

    Mi piacerebbe molto che S4C si interrogasse su queste questioni.

    Grazie al lettore per la pazienza.

    Alessandro Zanini

  2. niki sacco

    ecco, avevo scritto un commento e c’è sttao un errore del browser e puff…
    dicevo più o meno questo:
    concordo sul fatto che anche la fotograia sociale, come naturalmente chi si occupa di tematiche legate a situazioni delicate, debba avedre la sensibilità di porsi alcune domande. E certamente sarebe il caso che quella fotografia provasse ad andare oltre lo stereotipo (di povertà, emarginazione) che conosciamo. Ma quanti lo conoscono? C’è chi dice non abbastanza! e naturalmente le stesse NGOs (come sostiene da anni il caro amico Giulio Di Meo) dovrebbero smettere di comunicare utilizzando quelle immagini d’impatto e cercare di trasmettere un messaggio positivo!
    Ritengo di interesse questo articolo

    http://russiaoggi.it/articles/2011/03/11/il_world_press_photo_per_avventurieri_12026.html

    che partendo dall’analisi dei premi assegnati quest’anno da world press photo stimola la discussione su che cos’è il fotogiornalismo e a cosa serve mostrare alcune immagini come quella del corpo del bambino lanciato nel mucchio dopo il terremoto di Haiti.
    Personalmente credo che il fotogiornalismo e la fotografia sociale non siano la stessa cosa anche se hanno certamente tratti comuni. Ma il fotogiornalismo dovrebbe rispettare gli stessi canoni della fotgrafia sociale oppure può permettersi altro? E perchè il fotogiornalismo dovrebbe smettere di mostrare alcune immagini? ….
    Spero ci sarà presto occasione (non virtuale) di discuterne con calma.

    un abbraccio!
    ciao,
    n

  3. Luciano Simonelli

    La discussa foto di Laban-Mattel premiata al Word Press Photo Award 2011 offre molti spunti di riflessione.
    Personalmente ritengo che foto del genere abbiano la loro forza proprio nella crudezza e nell’orrore che mostrano. Ma sono sicuro che la realtà è molto peggio di così… l’idea è: ti mostro un’immagine emblematica per mostrarti un frammento di una realtà mille volte più orrenda, così orrenda da non essere comprensibile solo mediante una descrizione verbale. E da questo punto di vista credo che questa immagine abbia pienamente colto nel segno. Il fotografo ha documentato una situazione pre farla conoscere al mondo, con la forza che solo la fotografia può avere; possiamo chiudere gli occhi o voltarci dall’altra parte, ma ciò non cancella ciò che è stato: una immane tragedia.
    Quello che invece assolutamente disapprovo è la premiazione di questo genere di scatti nell’ambito dei premi di fotogiornalismo. Perché: perché in questo modo si offre il fianco alle critiche di sciacallaggio mediatico, si fa passare il concetto che per ottenere riconoscimenti e premi si devono per forza fotografare tragedie, si contribuisce a creare lo stereotipo del fotografo come persona cinica che, insensibile e fredda, si preoccupa solamente di “fare una bella foto” sulla pelle di persone che soffrono. E ciò che è più deleterio è il fatto che in questo modo si finisce per discutere sulla rappresentazione fotografica di una situazione (“ma guarda come è ben composta… ma che abilità nel cogliere l’attimo”…eccetera) piuttosto che sulla situazione stessa (la tragedia umana di un cataclisma), perdendo quindi di vista l’intento originario (cioè di informare, mostrare, documentare) e riducendo tutto ad una mera ambizione narcisistica del fotografo.
    La storia della fotografia ci racconta che proprio i reportages sociali sono stati uno strumento forte di conoscenza che ha portato alla presa di coscienza e quindi all’azione.
    In un certo senso credo che anche noi oggi possiamo cercare di mantenere questo spirito originario dell’approccio fotografico a problemi sociali, senza eccessi narcisistici che snaturino troppo il nostro intento.
    Su queste cose si potrebbe discutere all’infinito, secondo la sensibilità di ciascuno di noi e avremo certamente modo di approfondire ancora queste tematiche.

  4. Ivano Adversi

    Il dibattito fa sempre bene. Come si dice in questi casi, detto questo… La mia poco autorevole opinione in merito è che chi fotografa deve fotografare. E’ chiaro che se l’alternativa è tra fotografare e salvare una persona o cose simili non ci sono dubbi, ma nei casi di reportage sociale o fotogiornalismo il compito del reporter è quello di interpretare e riportare, far conoscere, mettere a disposizione le proprie capacità e le informazioni che ne derivano a coloro che da lontano possono solo sapere attraverso altri. Ovviamente non si deve indugiare bnella retorica, ma questa è solo una questione di gusto. Sul fatto di rappresentare sempre la povertà, occorre fare una valutazione. Giusto l’aspetto positivo, giusta la volontà di guardare a un futuro migliore, giusta la ricerca delle esperienze che insegnano e fanno da esempio, ma non si devono trascurare gli aspetti reali che sempre di più costringono milioni di persone in condizioni estreme e di bisogno. Ho presentato un prgetto a un comune emiliano sui cassa integrati e i licenziati di quella provincia. Mi hanno risposto che occorre essere positivi e che le foto di denuncia non risolvono i problemi. Giusto (a parte che nel progetto l’aspetto era tenuto in conto), ma vogliamo fare come quella persona che dice che va tutto bene? che siamo i meglio e che gli altri stanno peggio? La fotografia sociale e i fotografi hanno la grande possibilità di mostrare, interpretandola, la realtà. Occorre farlo al meglio con gli strumenti che abbiamo a disposizione. Per concludere il mio sproloquio una frase secca. Sono meglio belle foto che brutte foto, l’importante è che siano “vere”.

  5. Gianfranco Rotondo

    secondo me c’è un limite, sottile e difficile da individuare, figuriamoci da descrivere a parole. Secondo me si potrebbe arrivare a parlare persino di rispetto dei soggetti ritratti, e la stessa resa, migliore a mio parere, la si poteva ottenere oscurando molto il volto della giovane donna, io l’avrei trovato più coinvolgente, sarebbe stato il ritratto di una dignità persa, o meglio del male che ha cercato di prendersela. questo è il mio parere assolutamente poco autorevole.


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