Lampedusa. Come nel Monopoli
[testo e foto: Laura Bastianetto, giornalista, volontaria C.R.I.]
C’è una bambina piccola con la pelle nera che mangia e gioca con un bicchiere di plastica. E’ in braccio al suo papà che sorride. Dietro di loro il mare cristallino e illuminato dal sole. E’ la prima foto che spunta tra quelle scattate a Lampedusa. Ricordo perfettamente quella giornata, di quelle che si definiscono tranquille, ma si è parlato troppo presto. Fino a quell’ora non c’era stato ancora nessuno sbarco.
Ma a Lampedusa è così, tutto può succedere improvvisamente. Magari si è al bar a bere qualcosa per rinfrescare la gola sempre arsa, o magari si è in procinto di fare un pisolino per tentare di recuperare le ore di sonno perse e zac. Arriva la chiamata e bisogna correre al molo. Lì si compie il solito rituale: la conta.
Uno, due, tre, quattro. I migranti vengono contati mano a mano che scendono da quella carretta in legno o in ferro su cui sono rimasti immobili per giorni. La mano del soccorritore è il loro primo contatto con l’Italia. Aissa e via sul molo zoppicando, o reggendosi le gambe. Il dolore a volte è lancinante, ma tale è la voglia di toccare terra dopo aver passato almeno tre giorni in mare aperto che ci si dimentica di qualsiasi fastidio.
Si siedono di nuovo sul molo in attesa che arrivi il pullman per portarli al centro d’accoglienza e intanto bevono un po’ d’acqua e mangiano una merendina. Uno di loro a cui mi avvicino per chiedergli come va, mi guarda, mi offre un pezzo della sua merenda e poi mi sorride.
Ogni volta è così, che vengano dalla Libia o dalla Tunisia, tutti i migranti danno grande prova di dignità. Scappano dalla guerra. Fuggono dal terrore. Non importa cosa faranno, dove vivranno. L’importante è che siano salvi. Ibrahim, il padre della foto sopra citata, viene dal Ciad. Ha affrontato un viaggio lungo per poter cercare un futuro diverso per se stesso, per sua moglie, ma soprattutto per sua figlia. E’ stanco, ma è felice e poi aggiunge “I’m safe”. Seduto vicino a Ibrahim c’è Dahud, un ragazzo somalo di appena 23 anni. Ha perso i suoi genitori quando era ancora molto piccolo e i suoi fratelli vivono da anni in Italia. E’ stato clandestino in Libia da dove è scappato dopo aver trascorso 2 anni nel centro di detenzione. E’ partito da Misurata schivando pallottole per tutto il percorso perché quelli come lui, con la pelle nera, in Libia sono considerati mercenari e vengono fatti fuori dai ribelli che combattono il dittatore Gheddafi.
Dahud ha una sorella a Roma con cui cerca da subito di mettersi in contatto, ma non ricorda bene il suo numero che era registrato sulla rubrica del suo telefono. Peccato che il suo cellulare gli è stato sequestrato prima della partenza dagli scafisti.
Su quella stessa imbarcazione ci sono altre 533 storie. Tale è la portata di quel barcone, il più numeroso fino a qualche giorno fa quando ne è sbarcato un altro con 760 migranti. Vengono da tutta l’Africa e hanno vite pazzesche tanto che solo dopo averle sentite si capisce come donne all’ottavo mese di gravidanza e bambini neonati abbiano il coraggio di affrontare un viaggio così faticoso, ma soprattutto così pericoloso.
Non è leggenda infatti la tragedia del barcone rovesciato in acque maltesi. E’ accaduto davvero in una notte di inizio aprile con un mare burrascoso e un vento forza sei. A bordo di quella carretta della disperazione c’erano trecento persone. Uomini, donne e bambini provenienti da tutta l’Africa. La paura, il mare che non dava tregua, il buio che nascondeva. Tutto questo ha impedito i soccorsi. Tutto questo ha permesso che su 300 persone solo 51 arrivassero salve a Lampedusa.
Altra storia sono i nordafricani. Partono dalla Tunisia e li chiamano migranti economici perché da Tunisi non si scappa né dalla guerra, né dalla fame. Ragazzi dai 16 ai 30 anni vanno via perché cercano un futuro diverso che ora il loro paese, impegnato a risolvere la sua crisi istituzionale, proprio non glielo può garantire. Il viaggio dalla Tunisia dura almeno due giorni e costa parecchio. Arrivano in numero minore rispetto agli altri africani.
Riempiono barchette da 60, 70 persone, al massimo arrivano in 120. Stesso rituale, di cui sopra, al loro approdo. Stessa conta.
Il destino è invece diverso. Per loro non è previsto l’asilo politico. Per loro c’è solo un biglietto di ritorno in Tunisia. E allora scappano per le vie dell’isola senza una precisa direzione. Sembrano formichine impazzite che sviano il dito del bambino dispettoso.
Un lampedusano che assiste alla scena urla “Curre, curre…nove chilometri e in mare finisc”. E’ così. Da quest’isola non si può scappare, ma la paura di tornare a casa, dopo aver affrontato un viaggio così lungo prima di arrivare in Italia, li spaventa.
E’ come nel Monopoli. Perdi e torni al punto di partenza. Solo che qui non si gioca affatto. Non è loro la responsabilità di aver perso una partita, ma è del loro sangue maghrebino.
Laura Bastianetto
[testo e foto: Laura Bastianetto, giornalista, volontaria C.R.I.]
C’è una bambina piccola con la pelle nera che mangia e gioca con un bicchiere di plastica. E’ in braccio al suo papà che sorride. Dietro di loro il mare cristallino e illuminato dal sole. E’ la prima foto che spunta tra quelle scattate a Lampedusa. Ricordo perfettamente quella giornata, di quelle che si definiscono tranquille, ma si è parlato troppo presto. Fino a quell’ora non c’era stato ancora nessuno sbarco.
Ma a Lampedusa è così, tutto può succedere improvvisamente. Magari si è al bar a bere qualcosa per rinfrescare la gola sempre arsa, o magari si è in procinto di fare un pisolino per tentare di recuperare le ore di sonno perse e zac. Arriva la chiamata e bisogna correre al molo. Lì si compie il solito rituale: la conta.
Uno, due, tre, quattro. I migranti vengono contati mano a mano che scendono da quella carretta in legno o in ferro su cui sono rimasti immobili per giorni. La mano del soccorritore è il loro primo contatto con l’Italia. Aissa e via sul molo zoppicando, o reggendosi le gambe. Il dolore a volte è lancinante, ma tale è la voglia di toccare terra dopo aver passato almeno tre giorni in mare aperto che ci si dimentica di qualsiasi fastidio.
Si siedono di nuovo sul molo in attesa che arrivi il pullman per portarli al centro d’accoglienza e intanto bevono un po’ d’acqua e mangiano una merendina. Uno di loro a cui mi avvicino per chiedergli come va, mi guarda, mi offre un pezzo della sua merenda e poi mi sorride.
Ogni volta è così, che vengano dalla Libia o dalla Tunisia, tutti i migranti danno grande prova di dignità. Scappano dalla guerra. Fuggono dal terrore. Non importa cosa faranno, dove vivranno. L’importante è che siano salvi. Ibrahim, il padre della foto sopra citata, viene dal Ciad. Ha affrontato un viaggio lungo per poter cercare un futuro diverso per se stesso, per sua moglie, ma soprattutto per sua figlia. E’ stanco, ma è felice e poi aggiunge “I’m safe”. Seduto vicino a Ibrahim c’è Dahud, un ragazzo somalo di appena 23 anni. Ha perso i suoi genitori quando era ancora molto piccolo e i suoi fratelli vivono da anni in Italia. E’ stato clandestino in Libia da dove è scappato dopo aver trascorso 2 anni nel centro di detenzione. E’ partito da Misurata schivando pallottole per tutto il percorso perché quelli come lui, con la pelle nera, in Libia sono considerati mercenari e vengono fatti fuori dai ribelli che combattono il dittatore Gheddafi.
Dahud ha una sorella a Roma con cui cerca da subito di mettersi in contatto, ma non ricorda bene il suo numero che era registrato sulla rubrica del suo telefono. Peccato che il suo cellulare gli è stato sequestrato prima della partenza dagli scafisti.
Su quella stessa imbarcazione ci sono altre 533 storie. Tale è la portata di quel barcone, il più numeroso fino a qualche giorno fa quando ne è sbarcato un altro con 760 migranti. Vengono da tutta l’Africa e hanno vite pazzesche tanto che solo dopo averle sentite si capisce come donne all’ottavo mese di gravidanza e bambini neonati abbiano il coraggio di affrontare un viaggio così faticoso, ma soprattutto così pericoloso.
Non è leggenda infatti la tragedia del barcone rovesciato in acque maltesi. E’ accaduto davvero in una notte di inizio aprile con un mare burrascoso e un vento forza sei. A bordo di quella carretta della disperazione c’erano trecento persone. Uomini, donne e bambini provenienti da tutta l’Africa. La paura, il mare che non dava tregua, il buio che nascondeva. Tutto questo ha impedito i soccorsi. Tutto questo ha permesso che su 300 persone solo 51 arrivassero salve a Lampedusa.
Altra storia sono i nordafricani. Partono dalla Tunisia e li chiamano migranti economici perché da Tunisi non si scappa né dalla guerra, né dalla fame. Ragazzi dai 16 ai 30 anni vanno via perché cercano un futuro diverso che ora il loro paese, impegnato a risolvere la sua crisi istituzionale, proprio non glielo può garantire. Il viaggio dalla Tunisia dura almeno due giorni e costa parecchio. Arrivano in numero minore rispetto agli altri africani.
Riempiono barchette da 60, 70 persone, al massimo arrivano in 120. Stesso rituale, di cui sopra, al loro approdo. Stessa conta.
Il destino è invece diverso. Per loro non è previsto l’asilo politico. Per loro c’è solo un biglietto di ritorno in Tunisia. E allora scappano per le vie dell’isola senza una precisa direzione. Sembrano formichine impazzite che sviano il dito del bambino dispettoso.
Un lampedusano che assiste alla scena urla “Curre, curre…nove chilometri e in mare finisc”. E’ così. Da quest’isola non si può scappare, ma la paura di tornare a casa, dopo aver affrontato un viaggio così lungo prima di arrivare in Italia, li spaventa.
E’ come nel Monopoli. Perdi e torni al punto di partenza. Solo che qui non si gioca affatto. Non è loro la responsabilità di aver perso una partita, ma è del loro sangue maghrebino.
Laura Bastianetto
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