Il mio viaggio a RiminiIl mio viaggio a Rimini

(testo e foto: Ornella Mazzola/S4C)

Sembrerà inconsueto, ma vorrei iniziare questo racconto dalla fine: ero sul treno diretto a Roma, da sola, col mio zaino pieno di emozioni, quando ho cominciato a pensare a quanto sia strana la vita, davvero strana.

Ero partita la mattina determinata a compiere una missione ma, una volta arrivata a Rimini, gli dei decisero di giocare con me, così per una serie di ingarbugliamenti, venivo a sapere che non l’avrei potuta portare a termine.

E’ così che inizia la vera storia di questa storia.

Quel giorno non mi sono data per vinta e ho cercato una soluzione alternativa, anche perché il mare in burrasca di Rimini mi consigliava di fare così.

E’ in questo modo che ho conosciuto un luogo che non potrò mai dimenticare, dove per la prima volta in vita mia, i miei occhi hanno incontrato degli sguardi così puri, innocenti e diretti.

 

Un centro diurno a Rimini che ospita persone con diverse tipologie di disagio psichico, e che dà loro l’opportunità di ritrovare la propria dignità, mediante il lavoro manuale. Non tutti naturalmente riescono a concentrarsi, i livelli di patologia sono svariati, ma una buona parte sì, ed è emozionante osservare i loro gesti delicati e lenti.

Avvitano, svitano, costruiscono scatoloni e scatolette, disfano, assemblano, alcuni dipingono e creano piccoli oggettini che riescono a vendere alle fiere di Rimini a Natale o a Pasqua; sono silenziosi, altri chiassosi, alcuni affettuosi, altri ancora diffidenti, sembra un grosso alveare.

Ognuno di loro ha una storia cucita su di sé, e se la porta appresso, così come il ricordo di un manicomio da cui si è reduci: poi arriva Il Conte, che mi prende per mano con un sorriso immenso e mi chiede se può fare una foto lui a me, e poi c’è il più piccoletto di tutti che mi segue da lontano e ogni tanto mi fa un cenno di complicità con la mano, e poi c’è una bellissima donna dai capelli nero corvino che si avvicina e mi urla che lei è arrabbiata con tutte le donne e quindi anche con me.

Le varie sfumature dell’essere umano sono concentrate in quello stanzone e tutto ciò mi provoca un giramento di testa improvviso ed è a quel punto che arriva la carezza di Valerio con la felpa rosso fuoco, lui mi ha capito più di chiunque altro in quei pochi istanti.

Empatia, si chiama empatia.

Sarei rimasta ore e ore a conoscerli e a fotografarli, ma il treno di ritorno mi aspettava. Con un sorriso ho guardato tutti e trenta, uno per uno, e poi ho pensato a quanto sia strana la vita, davvero strana.

Ornella Mazzola/S4C

 

 

 (testo e foto: Ornella Mazzola/S4C)

Sembrerà inconsueto, ma vorrei iniziare questo racconto dalla fine: ero sul treno diretto a Roma, da sola, col mio zaino pieno di emozioni, quando ho cominciato a pensare a quanto sia strana la vita, davvero strana.

Ero partita la mattina determinata a compiere una missione ma, una volta arrivata a Rimini, gli dei decisero di giocare con me, così per una serie di ingarbugliamenti, venivo a sapere che non l’avrei potuta portare a termine.

E’ così che inizia la vera storia di questa storia.

Quel giorno non mi sono data per vinta e ho cercato una soluzione alternativa, anche perché il mare in burrasca di Rimini mi consigliava di fare così.

E’ in questo modo che ho conosciuto un luogo che non potrò mai dimenticare, dove per la prima volta in vita mia, i miei occhi hanno incontrato degli sguardi così puri, innocenti e diretti.

 

Un centro diurno a Rimini che ospita persone con diverse tipologie di disagio psichico, e che dà loro l’opportunità di ritrovare la propria dignità, mediante il lavoro manuale. Non tutti naturalmente riescono a concentrarsi, i livelli di patologia sono svariati, ma una buona parte sì, ed è emozionante osservare i loro gesti delicati e lenti.

Avvitano, svitano, costruiscono scatoloni e scatolette, disfano, assemblano, alcuni dipingono e creano piccoli oggettini che riescono a vendere alle fiere di Rimini a Natale o a Pasqua; sono silenziosi, altri chiassosi, alcuni affettuosi, altri ancora diffidenti, sembra un grosso alveare.

Ognuno di loro ha una storia cucita su di sé, e se la porta appresso, così come il ricordo di un manicomio da cui si è reduci: poi arriva Il Conte, che mi prende per mano con un sorriso immenso e mi chiede se può fare una foto lui a me, e poi c’è il più piccoletto di tutti che mi segue da lontano e ogni tanto mi fa un cenno di complicità con la mano, e poi c’è una bellissima donna dai capelli nero corvino che si avvicina e mi urla che lei è arrabbiata con tutte le donne e quindi anche con me.

Le varie sfumature dell’essere umano sono concentrate in quello stanzone e tutto ciò mi provoca un giramento di testa improvviso ed è a quel punto che arriva la carezza di Valerio con la felpa rosso fuoco, lui mi ha capito più di chiunque altro in quei pochi istanti.

Empatia, si chiama empatia.

Sarei rimasta ore e ore a conoscerli e a fotografarli, ma il treno di ritorno mi aspettava. Con un sorriso ho guardato tutti e trenta, uno per uno, e poi ho pensato a quanto sia strana la vita, davvero strana.

Ornella Mazzola/S4C

 

 

 




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