Rifugiarsi nella propria Ambasciata
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Negli ultimi giorni, molti media nazionali hanno denunciato la vergognosa condizione di un gruppo di rifugiati somali, a Roma, all’interno di quella che fino a qualche anno fa era la sede dell’Ambasciata del proprio Paese.
Purtroppo, più che una (brutta) situazione di cronaca, verrebbe da dire (con cinico sarcasmo) che si tratta piuttosto di una cronica situazione di disagio e degrado.
Il fotoreporter, membro di S4C, Andrea Ranalli ci racconta che è una situazione che va avanti da anni. Questi suoi scatti sono tratti da un reportage, pensate, del 2005…
E pensare che fuori, la targa dice: “Ambasciata della Repubblica Democratica della Somalia”.
Antonio Amendola
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2005, Ambasciata della Somalia a Roma (testo e foto di Andrea Ranalli/S4C)
Il quartiere è uno dei più esclusivi di Roma, a poche centinaia di metri da Porta Pia, le strade sono tranquille e piene di verde. Le palazzine sono dei villini eleganti e ben curati. Davanti al cancello di uno di questi una targa porta inciso “Ambasciata della Repubblica Democratica della Somalia”.
Varcando quel cancello però non incontrerete dei dignitari stranieri, quello che vi troverete davanti provocherà in voi uno shock percettivo. Perchè in questa che una volta era una sede diplomatica, oggi vivono in condizioni di estremo disagio una cinquantina di uomini provenienti dalla Somalia.
L’ambasciata chiuse nel 1991, dopo il collasso dl governo di Mogadiscio, e il palazzo di Via dei Villini ora è in uno stato di totale abbandono, il giardino è un deposito di rottami di auto, e il garage e le varie stanze vengono utilizzati come rifugio da queste persone che non saprebbero dove altro andare.
Sono una decina quelli che dormono sotto il porticato, su materassi e giacigli di fortuna. Nel garage ci sono altri letti ed una cucina alimentata con bombole di gas. Negli angoli immondizia e pochi averi, spesso ammassati dentro delle borse.
La stessa situazione la si ritrova nelle cantine, dove in una oscurità totale ci si aggira su altri rifugi. E la situazione non è migliore all’interno della palazzina, dove le stanze stanno letteralmente crollando a pezzi. Non c’è elettricità, l’acqua calda viene ricavata scaldandola in una pentola, e c’è un solo bagno agibile per tutti.
“Ho lasciato la Somalia perchè la gente veniva uccisa” ci racconnta Farah, con la pelle del suo viso screpolata per il freddo ed il corpo ricoperto di bolle, “per finire qui dove non ho nemmeno I soldi per comprarmi le medicine. Sono stato qualche mese in Norvegia, dove stavo meglio, ma poi mi hanno rimandato in Italia e la mia malattia è peggiorata di nuovo”.
La storia di Farah, che dall’Italia era stato mandato in un altro paese dell’Unione Europea, per poi essere rimandato in Italia, è simile a quella di tanti altri Somali accampati nell’ambasciata. In termini burocratici la loro situazione si definisce “caso di Dublino”.
Queste persone avevano fatto richiesta per avere asilo in Italia, poi spostandosi in un altro paese avevano presentato nuovamente domanda di asilo.
Purtroppo però I regolamenti europei permettono di fare richiesta di asilo in un solo paese della UE, e quindi queste persone vengono rispedite nel paese in cui avevano fatto la prima domanda.
“In Svezia avevo una casa e stavo frequentando un corso da muratore”, ci racconta un altro esule, Sadin di 25 anni, “da quando la polizia Svedese mi ha rimandato in Italia sono qui, dormendo all’aperto, in un posto senza acqua e elettricità”.
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(english excerpt)
Italian national media are lately covering an amazing story. In a building that once was the Somalian Embassy in Rome, dozens of Somalis refugees live in shameful conditions.
More than news, it is a chronic situation that has been going on for years, as S4C member Andrea Ranalli show with this brief excerpt of a 2005 reportage.
But we just forgot it… Good to see that now the spotlight is again on them.
Antonio Amendola
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2005, Somalian Embassy in Rome (text and photos by Andrea Ranalli/S4C)
The neighborhood is one of the most elegant in Rome, and the quiet street is full of greenery. Zeinab Ahmed Barahow is playing “hostess” in a building protected by a hedge and two large wrought-iron gates. Outside, a brass sign reads “Embassy of the Somali Democratic Republic”.
The story of Farah – who arrived in Italy but went on to settle in another European Union country, from where he was sent back to Italy again – is similar to that of many other Somalis who are encamped at the former embassy, and who in bureaucratic jargon are called “Dublin cases”. These are people who first sought asylum in Italy but, unable to survive because they lacked working rights and received no aid whatsoever, subsequently moved to other countries of the EU, where they re-applied for asylum.
“In Sweden, I had a home, a health care card, and I was taking a course for carpenters. In the eight months I was there, I also learned a bit of the language, because a teacher gave us lessons twice a week,” said another Somali asylum seeker, Sadin, aged 25. “Since the Swedish police sent me back to Italy, I have been sleeping here out in the open, in a place without electricity or hot water.”
Andrea Ranalli/S4C
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