Architettura di un Genocidio / The Architecture of a Genocide

[Presentiamo oggi l’estratto di un bel reportage di Vincenzo Cammarata, sulla perversa estetica del Male assoluto: il Genocidio. E’ un modo molto intenso per presentarvi un nuovo fotografo di Shoot for Change. Antonio Amendola]

Architettura di un Genocidio

di Vincenzo Cammarata

 [ENGLISH VERSION BELOW]

Auschwitz. Birkenau. Una reazione fredda. Gelata. E non era colpa dei trenta gradi sottozero che mi accolsero. Ero già stato a Dachau, vicino Monaco, in Baviera. Due volte. All’impatto con l’Arbeit Macht Frei, con la storia, anche se in scala ridotta, ero abituato. I campi polacchi, soprattutto Auschwitz (Auschwitz I), non mi fecero l’effetto dirompente che spinge qualche visitatore, almeno quelli più sensibili, a non continuare la visita cercando di contenere dentro di sé il disgusto per i fantasmi e gli orrori che emergevano.

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Auschwitz. Le sembianze da caserma – perché tale era prima dell’onta che la ricoprì – non combaciavano con l’immagine di desolazione che mi aspettavo. Tutto troppo accogliente e statico. Come se fosse il set di uno dei tanti film sui nazisti che avevo visto fin da quando ero ragazzino. Sembrava che, improvvisamente, dovesse apparire da dietro un angolo o lungo la doppia recinzione elettrificata il tedesco con il suo pastore, tedesco pure lui. A rendere tutto più vero c’era una coltre candida di almeno trenta centimetri di neve, ideali per rivedere nelle tracce lasciate il giorno prima dai visitatori quelle del crucco che, armato, pascolava il suo fido, crucco pure lui.

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Birkenau. Auschwitz II.

Lì rividi Dachau, tante Dachau. Assuefatto dalla visita ad Auschwitz, nemmeno lì riuscii a farmi trascinare dalle emozioni. Continuai, invece, ad osservare e fotografare, quello che avevo notato durante la visita alla caserma (Auschwitz I): le anafore. Ripetizioni di elementi architettonici che con fare retorico, amplificavano tutto: un luogo dove l’uno non esiste se non accompagnato da una sequenza composta e ordinata di altri uno.

Dalle “spine” del filo di recinzione a quello che rimane dei camini delle baracche tutto è cadenzato e multiplo. Come cadenzati e multipli erano i corpi vivi e morti che vi transitarono.

Ho riflettuto spesso su quale sia il ruolo dell’architettura nella nostra cultura. Quella occidentale, figlia del Bauhaus tedesco:  armonizzare e far convivere estetica, funzionalità e usabilità nello spazio abitativo privato o socialmente condiviso. Ne sono convinto.  O almeno dovrebbe essere così.

 

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Quello che accadde nei campi di concentramento e di sterminio nazisti dimostra come però l’architettura, così intesa, asservita al Male, potesse trovare una sua formalità. Un suo peculiare gusto che per chi progettò e ingegnerizzò l’olocausto richiedeva e giustificava perfino una certa estetica.  Perversa.

Il genocidio ha un suo linguaggio architettonico, fatto di interni che aprono verso esterni, parlando di urbanistica e di design del paesaggio. Così si rendeva scientifico ed efficiente ciò che doveva essere sistematico. L’aspetto architettonico attuale è diverso. Le rovine rendono più struggenti gli spazi. Le ricostruzioni puntano a far rivivere l’orrore. Oltre gli spazi, resta il ricordo di chi non appena giunto in quei campi perdeva la propria dignità di essere umano. Per qualcuno, grazie alle fotografie e alla fotografia, rimane ancora quel ricordo su di un muro. Architettura della memoria.

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The Architecture of a Genocide

by Vincenzo Cammarata

Auschwitz. Birkenau. A cold response. Frozen. It was not the fault of thirty degrees below zero that greeted me. I had been to Dachau, near Monaco, Bavaria. Twice. I was used to the Impactwith the “Arbeit Macht Frei”, with history, although in reduced scale.

The concentration camps in Poland, especially Auschwitz (Auschwitz I), did not have on me  the same drastic effect that pushes some visitors, at least those most sensitive, to not continue the visit trying to contain within them the disgust for the ghosts and horrors that emerge everywhere.

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Auschwitz. The appearance of the barracks – for that was what they were before the shame filled them,  does not match the picture of desolation that I expected.

All too cozy and static. As if the set of one of the many films about the Nazis who I had seen since I was a kid. It seemed that suddenly a German soldier would appear from behind a corner or along the double electrified fence with his German shepherd, he too German. To make things more real, there was a white blanket of at least a foot of snow, ideal for review in the traces left by visitors on the day before those of a Guard, armed, walking his dog, a Guard, too.
Birkenau. Auschwitz II. There I saw Dachau, many Dachaus. Addicted by the visit to Auschwitz, I was not dragged by emotions. I continued, however, to observe and photograph what  I had noticed during my visit to the barracks (Auschwitz I): the anaphora. Repetition of architectural elements that rhetorically, amplify all: a place where “one” does not exist unless accompanied by an orderly sequence composed of other “ones”.

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From the “thorns” of the wire fences to what remains of the chimneys of the barracks:  everything is measured multiple. As rhythmic and multiple where the live and dead bodies that were passing through.

I often reflected on what the role of architecture in our culture. Western one, daughter of the German Bauhaus to harmonize and bring together aesthetics, functionality and usability in living space private or socially shared. I am convinced of that. Or at least that it how it  should be.
What happened in concentration camps and Nazi exterminations, however, was that  Architecture, enslaved to Evil, managed to find its formality: a peculiar taste by those who designed and engineered the Holocaust,  calling and even justifying a certain Aesthetic. A perverse one.
The Genocide has its own architectural language, made up of internal opening to outside, talking about urban planning and landscape design. So what should be systematic was made scientific and efficient.

The current architectural appearance is different. The ruins make the spaces more poignant. Reconstructions aims to revive the horror. Besides space, what remains  is the memory of those who – just arrived in those camps –  lost their dignity as human beings. For some, thanks to photographs and photography, still remains that memoir on a wall. Memory Architecture.

 

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