Diario dal Senegal: riflessioni (un po’) amare

(testo e foto di Antonio Marcello/S4C)  – clicca qui per la gallery –

Siamo stati a Goree oggi, la piccola isola a poche centinaia di metri da Dakar, famosa  per essere stata il centro nevralgico della deportazione di schiavi nelle americhe. Ma  non è su questo che vorrei soffermarmi oggi.

E’ relativamente facile fotografare bambini qui in Africa, ti si mettono davanti, si  contendono l’obbiettivo. A volte vedi occhi sofferenti, altre volte sorrisi spontanei. Il  difficile è scoprirli veramente. Lo sport e il modo con cui si relazionano ad esso aiuta  a leggere in loro, a percepire le modalità di interazione, a creare un contatto meno  superficiale, ad ipotizzare a grandi linee la società del futuro.

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La Uisp ha organizzato in questa tranquilla isola delle attività sportive dedicate alle  scolaresche, bambini di circa 10 anni di età.

Difficile, è stato veramente difficile.

Abbiamo scoperto, o forse solamente confermato,  un lato che mi preoccupa non poco. In questa gionata, ma anche durante tutto il periodo
di attività della Uisp in Senegal, I valori emersi sono quelli della competitività,  dell’aggressività, del voler dominare ed essere protagonisti a tutti i costi. Ogni motivo  è valido per generare una scazzottata, per rubare a chi sta vicino il giocattolo  duramente conquistato. Sembra una lotta per la sopravvivenza, e probabilmente, al di  fuori dell’ambito sportivo, per molti lo è realmente.

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Anche relativamente alle tematiche di genere, a quest’età, abbiamo notato che sono  seriamente condizionati, forse dal contesto religioso, forse semplicemente da  un’educazione, da un modello che vede le donne quasi sempre subordinate all’uomo.

Non c’è  stato verso di mescolare le squadre. Nelle turnazioni erano prima i maschietti a  partecipare, quindi ancora i maschietti, e se c’era tempo, anche le piccole adulte.

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E’ stato complesso farli giocare ai nostri semplici giochi, si sono rilevati troppo  scalmanati, confusionari. Abbiamo chiesto loro, per trovare un punto di contatto, quali  giochi facessero durante l’attività sportiva scolastica. La risposta: lotta senegalese e  calcio.

Hanno in mente i grandi giocatori, molti di loro indossano maglie di calciatori europei,  vorrebbero essere dei grandi campioni come loro, a tutti i costi.

Antonio Marcello/S4C

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N.d.R.

Era questione di giorni. In un certo senso mi aspettavo queste considerazioni di Antonio Marcello che conosco e so quanto sia un viaggiatore (e fotografo) sensibile e attento. Questi suoi diari dal Senegal sono interessanti perchè dimostrano l’empatia che si può stabilire tra un fotografo-viaggiatore e la storia nella quale si immerge.

Ciò è tanto più vero per S4C. O almeno è quello che notiamo con tutti i nostri membri ed amici. Una volta “entrati” in una storia, l’immersione è totale.

Il difficile è uscirne.

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There are 2 comments

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  1. niki sacco

    Presidente, non ci usciremo mai!! per fortuna..

    grazie Antonio che da Dakar condividi con noi questi tue emozioni e considerazioni. un approccio competitivo non è necessariamente un male, anzi. è che se mancano le basi, l’educazione…questo tipo di approccio si trasforma in un approccio aggressivo, confuso. e anche molto umano ahimè.
    piuttosto, sarebbe interessante sapere come gli operatori che lavorano su quei territori e hanno quotidianamente a che fare con quella gente e con quei ragazzi approcciano la questione. Sarebbe bello sapere che fanno e capire se e come possibile dare un contributo.

    un abbraccio
    nic

  2. Antonio Marcello

    Ciao Nicola,
    sono d’accordo con te sul tema della competitività… ma nei posti che ho visitato, a mio modesto parere, quello che ho notato è che l’istintualità è portata agli estremi, senza le basi per un’educazione di fondo che la canalizzi e ne limi gli aspetti aggressivi e la competitività estrema. Di contro la nostra società occidentale, sempre nella mia modesta interpretazione, tende a razionalizare ed attenuare forse troppo l’istintualità, generando comportamenti e relazioni umane molto asettici. Probabilmente il giusto equilibrio è nel mezzo… dal Senegal c’è da imparare.

    Per quanto riguarda gli operatori, bravissimi e sensibili nel loro ruolo e molto preparati nel proporre le attività, in qualche modo sono critico. In parte la difficoltà è dovuta a periodi di intervento forse troppo brevi e mirati alla specifica attività in programma che non permettono un’integrazione “intima” con le persone del posto. Sicuramente sul posto manca la figura specifica del mediatore culturale, quindi una professionalità che conosca i luoghi, e che sia quindi in grado di relazionarsi e trovare le modalità di intervento più corrette.
    Sicuramente una formazione più intensiva agli operatori che saranno nuovamente sul posto nel prossimo futuro, potrà sicuramente giovare nel tentativo di realizzare uno scambio culturale e portare un contributo che non sia solo “pratico” (tipo insegnare a nuotare ai pescatori che è comunque importante).

    Il problema alla base è comunque, secondo me, la vita di ristrettezze che molti abitanti del Senegal sono costretti a condurre e che rende difficile operare ed “educare”.

    Ripeto, questo è un mio modesto parere, frutto di un’esperienza di pochi giorni in un posto che richiederebbe mesi, se non anni, per poter essere assimilato.


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