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Corsa all’oro verde. Land Grabbing in Cambodia

– english below – 

(una storia di Germana Lavagna – testo tratto dal numero di dicembre di Popoli)

Provincia di Kratie – Cambogia
Snuol è una strada che alza polvere rossa su qualche sparuto caseggiato e le tende disordinate di un mercato brulicante. Camion perenni, che sfrecciano da mete sconosciute verso mete sconosciute, sono i segni di una modernità scostante ed intrusiva, come l’albergo nel quale dormo e un karaoke vestito di neon atterrato come un’astronave nel buio profondo di queste campagne quando il sole cala. Il confine con il Vietnam è a pochi chilometri, e questi sono i presidi mondani delle sue malcelate mire economiche. La corsa alle terre, qui, ha il vago retrogusto di una guerra, dove i confini si ridisegnano sulle carte ogni giorno e i terreni conquistati diventano in fretta enclaves agricole ad uso e consumo dei conquistatori.

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Mom Sokim allunga un braccio sul ciglio della strada. Finalmente la trovo, dopo sei ore di pullman e qualche chilometro in motorino da spartire in tre. Ci infiliamo dentro un’esile casetta, in bilico su quattro pali di legno, come quasi tutte quelle che ci sono nei dintorni. Palafitte a secco che riardono al sole nell’attesa delle piogge estive.

Come massoni attenti e furtivi, altri cinque uomini mi accolgono con solennità e qualche sorriso informale. Sono attivisti e temono che il mio arrivo susciti troppa attenzione.

Il Partito Popolare di Hun Sen, primo ministro dal 1993, è onnipresente e i suoi accoliti vigilano che nessuno si lamenti della politica di concessione dei terreni che il governo sta seguendo con metodica assiduità da dieci anni a questa parte. La paura di marcire in prigione senza passare per un regolare processo, o peggio, di finire ammazzati da una polizia dal grilletto facile come accaduto all’attivista Chut Whutty o a Heng Chantha, una ragazzina di 14 anni rimasta uccisa durante un’operazione militare dispiegata per reprimere le proteste, rende il nostro incontro una riunione clandestina e poco raccomandabile.

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La voglia di parlare però è tanta. Raccontare la loro storia è una questione di principio, poiché sanno che non hanno speranze in una lotta impari. La consapevolezza che nulla cambierà e che le loro recriminazioni non restituiranno la terra maltolta, rende questi contadini ancora più determinati nel volermi raccontare ogni dettaglio di quello che hanno passato.
In Cambogia il concetto stesso di proprietà è stato cancellato dal regime di Pol Pot. Dopo l’occupazione vietnamita, che ha messo fine al dominio militare dei khmer rouge, al caro prezzo di un’invadente presenza strategica, negli ultimi vent’anni la gente ha ripreso la vita da dove l’aveva lasciata. Là dove è sempre stata, coltivando la terra e abitandoci sopra. Un’agricoltura di sussistenza che regola la quotidianità del 86% delle persone in una nazione di contadini. Riso, gomma, grano, cassava e foreste sono la principale risorsa di questa pianura alluvionale incastonata nella penisola indocinese.
Quando nel 2003, lo Stato ha iniziato a svendere le proprie terre per richiamare investitori e ricchezza straniera nel Paese, gli agricoltori sono corsi a presentare richiesta di un attestato di proprietà che li legittimasse a restare sui loro campi. Titoli friabili come foglie secche si sono sgretolati nelle loro mani quando il governo ha voluto indietro le terre per affittarle, in concessioni di 99 anni, ai più danarosi vicini oltre confine. Cinesi, vietnamiti e coreani, assieme alla élite legata ad Hun Sen, si sono appropriati di oltre il 22 per cento delle terre cambogiane. “Mai, come negli ultimi anni, abbiamo assistito ad un’impennata tanto verticale di concessioni” – sostiene Mathieu Pellerin, consulente della LICADHO, una delle più attive NGO ad occuparsi di land grabbing in Cambogia. Secondo i dati in loro possesso, infatti, sono oltre 2 milioni gli ettari di terreno concessi per lo sfruttamento agro alimentare, appaltati a torbide joint ventures tra le teste di serie del Partito e le grandi società straniere.

In una simmetria perversa ed inesausta, altri 2 milioni di ettari sono stati concessi per lo sfruttamento minerario e il Ministero dell’Ambiente ha recentemente alzato la posta aprendo i 23 parchi e santuari del Paese e oltre 346 mila ettari di aree protette di foresta incontaminata ai baroni della gomma, come li ha definiti un imponente rapporto diffuso quest’anno da Global Witness.

Due delle più grandi compagnie del Vietnam, la Hoang Anh Gia Lai e la Vietnam Rubber Group, foraggiate da lauti capitali internazionali, come quelli della Deutsche Bank e della International Finance Corporation, il braccio finanziario della Banca Mondiale, sono riuscite a mettere le mani su consistenti fette di fertile terra, schiacciando sotto il rullo compressore delle dinamiche di mercato diritti umani e istanze ecologiche.
In dieci anni, 400 mila persone hanno perso la terra sulla quale e con la quale vivevano ed è incalcolabile il danno arrecato alle risorse naturali della nazione. Foreste di palissandro, come quelle di Preah Viehar e Boeng Per, sono cadute senza fare rumore, ed è ora a rischio la sopravvivenza di diverse specie animali, qui una volta abbondanti, come l’elefante asiatico, il gibbone dal berretto, il langur grigio, i muntiak e numerose specie avifaunistiche.
La Cambogia è l’autostrada dove corre sfrenata e disinibita la caccia all’oro verde nel Sud-est asiatico, ultimo eldorado del colonialismo del nuovo millennio.

Germana Lavagna

Land Grabbing in Cambodia

(by Germana Lavagna)

“Land-grabbing is a global phenomenon led by local, national and transnational elites and investors, and governments with the aim of controlling the world’s most precious resources.”
germanalavagna_05This comprehensive definition of land grabbing was formulated in November 2011, when several hundreds women, men, pastoralists, representatives of indigenous peoples and civil society organisations got together in Mali at a Conference called “Stop Land Grabbing Now!”, organised by La Via Campesina.
The reasons behind land grabbing are many and diverse: land is grabbed to grow food crops or biofuels, to develop the mining industry, to plant forests, to build dams or other infrastructure, to develop touristic resorts, to mark the borders of natural parks, to expand cities, to establish a military occupation for geopolitical interests or simply to possess it as safeguard against other risks. The damages for those who live on or thanks to the land that gets grabbed are often similar and they are incalculable, regardless of the actual reasons behind each case. Communities who are denied access to land are disrupted; local economies are destroyed; the culture, the social fabric, the very sense of identity of local populations risk being torn apart.
Rural communities are deprived of their means of subsistence and the rights to use the resource they depend on for their survival. This phenomenon is accompanied by the growing and increasingly worrisome criminalisation of social movements and people who stand up for their rights.

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Cambodia
After more than a decade of political stability and years of high economic growth, local and foreign companies are now gaining government support to speed up the exploitation of the nation’s resources and push it to new extremes.
The 2012 saw a record increase in economic land concessions and the area controlled by agro- industrial companies jumped to more than 2 million hectares nationwide, according to human rights groups who track such projects.
Together, these private firms now control 3.9 million hectares of land, or more than 22 percent of Cambodia’s total surface area, according to data from rights group Licadho.
Since 2003, Licadho has recorded 654 disputes involving the land of about 85,000 families, or about 400,000 people, in 12 provinces. Some 11,000 families were newly affected by disputes with companies over land.
This project is journey through Cambodia far provinces and a close up into the Phnom Penh development process at the same time.




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