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Lena dei cani

Lena l’ho incontrata per caso in novembre, mentre lavoravo ad un altro reportage, un mese prima della sua morte, avvenuta durante questo periodo natalizio appena trascorso. Viveva da sola e non aveva nessuno. Quella di questo reportage è probabilmente l’unica foto disponibile di lei. Senza non ne sarebbe rimasta alcuna traccia ed è da questa riflessione che poi sono partita per documentare il posto in cui ha vissuto coi suoi randagi nell’indifferenza di tutti.

Romina Arena

 

Quel che resta di Lena

(una storia di Romina Arena/S4C Reggio Calabria)

Nella città metropolitana la gente sfreccia in SUV anche se le strade non sono quelle dei canyon. La città ricca respira lustrini e si specchia nelle vetrine delle firme costose. Reggio è una città che soffoca nei bordi delle pellicce, una città che langue sui risvolti dei portafogli.

Una città dove si muore soli.

(Reggio Calabria, "Quel che resta di Lena")

(Reggio Calabria, “Quel che resta di Lena”)

Per strada, a ridosso dei cassonetti dell’immondizia. Mentre ci si contempla nel riflesso delle proprie buone azioni, nel centesimo che brilla nella cesta delle offerte, altrove si muore in silenzio senza nemmeno accorgersene. Come si è vissuti, senza che gli altri se ne accorgessero.

(l'unica immagine che resta di Lena)

(l’unica immagine che resta di Lena)

Maddalena, Lena, è vissuta così, non lontano dal centro grasso della città, dentro un tugurio fatiscente, circondata dai suoi cani, le sue uniche amicizie, la sua unica consolazione. Gliela leggevi in faccia, nelle pieghe marcate delle rughe, la sua solitudine. Gli leggevi in faccia che la vita era quella che era e come era bisognava accettarla.

C’erano i cani da sfamare, uscendo alle 4 del mattino per rovistare nei cassonetti dell’immondizia alla ricerca degli avanzi buttati da ristoranti e pizzerie; c’era l’indifferenza della gente da sopportare, quella che ti scansa, quella che ti scaccia, quella che ti passa accanto e si tura il naso per non sentire la puzza; il buonismo una tantum delle suore che credono che la vita si affronti ad ostie e rosari e che il dolore e la sofferenza siano le chiavi per il cancello dei cieli. A due passi dalla città opulenta la solitudine sa mordere come un mastino incarognito e la miseria sa essere nera come il pozzo più fondo.

Lena non possedeva nulla, assieme ai randagi che arrivavano alla sua porta viveva in tre stanze ammorbate da un puzzo infernale. Niente elettricità e, forse, niente acqua. Brande divelte, uno o due mobili sfondati, muri scrostati e coperte lerce sparse ovunque aprono uno scenario di desolazione e abbandono. Insieme al tanfo si insinuano domande che nascondono risposte di ghiaccio. Dove eravamo? Non c’eravamo. Per i suoi cani. Per lei.

Non si sa di cosa vivesse, forse che a rovistare nell’immondizia per i suoi cani, alla fine, rovistasse anche per sé. Accanto alla porta d’ingresso è rimasto un frigo incrostato con dentro un avanzo di provola ed uno yogurt, bicchieri di plastica e stracci. Altrove, in un groviglio di suppellettili messe a soqquadro, sopra una foto incollata alla parete, un orologio è fermo alle 10:49 di chissà che giorno, di chissà che anno. A Lena non è bastata una madonna inchiodata al muro per difenderla dal buio della notte che avvolge chi è dannato sulla terra.

Nelle città, in tutte le città, in cui il benessere materiale scorre come un eldorado verso le fogne sudice del sottosuolo; in cui la gente si fregia della medaglia della solidarietà buttando distrattamente un centesimo nella ciotola del barbone; in cui accecati dalla miopia delle nostre vite, dai mal di pancia del nostro scontento, dal tutto che non ci basta non siamo in grado di leggere la povertà che ci scivola accanto silenziosa e dignitosa ogni Lena lercia che nella sua miseria accoglie un randagio e condivide con esso quel niente che ha ci serva da insegnamento, da rimprovero, da schiaffo. Ci serva per imparare a distinguere la pietà dalla compassione.




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